a
Chieti 2014
Amarcord - La
Merica
La statua della Libertà,
a mano a mano che il battello, partito da Manhattan, vi si avvicina,
ci appare in tutta la sua imponenza. Ma sembrava solo un piccolo,
luminoso puntino, che a poco a poco si ingrandiva, agli occhi
stupefatti degli emigranti che, a bordo delle navi partite
dall´Europa verso New York, finalmente sentivano trasformarsi in
realtà il sogno di raggiungere la "terra promessa", l'America.
Formalmente - lo sappiamo - essi andavano negli Stati Uniti
d'America, e non, genericamente, nella "America" che, a rigor di
termini, include l'intero Continente che va dall´Alaska alla Terra
del Fuoco. Ma per i "nostri" emigranti, gli USA erano l'America;
anzi, "La Merica". Ebbene, quando finalmente la nave degli emigranti
entrava nel porto di New York e, al suo imbocco, toccava l'isola su
cui sorge la statua della Libertà (il grande monumento di rame e di
ferro, alto nel complesso 93 metri, regalato dalla Francia, e
completato nel 1886), invece di accostarsi, all'attracco, sulle
banchine della destra, voltava invece a sinistra, verso la vicina
Ellis Island, e là si fermava.
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Ellis Island, paura e
speranza. Samuel Ellis era un mercante che, nel Settecento, aveva
comperato un isolotto della baia di New York, chiamandolo con il suo
nome; l'isola nel 1808 era poi stata acquistata dal governo
statunitense. Dopo averla adoperata anche come deposito militare,
verso la fine dell'Ottocento le autorità assegnarono infine
all'isola lo scopo che l'avrebbe resa famosa: "porta
dell'immigrazione". Per controllare un fenomeno imponente, con
enormi conseguenze politiche, sociali ed umane, le autorità decisero
che tutte le navi di immigranti provenienti dall'Europa sbarcassero
i loro passeggeri ad Ellis Island, per una rigorosissima "quarantena".
A questo scopo nell'isola furono costruiti degli edifici che
cominciarono a "funzionare" il 1° gennaio 1892, centodieci anni fa.
Quando, adesso, si
attracca ad Ellis Island tutto appare bello, colorato, romantico; il
palazzo principale - quasi un castello, in mattoni rossi e bianchi,
delimitato ai lati da quattro torrette - all´apparenza dà l'idea di
un allegro hotel per vacanze. Ma, se si pensa a quello che esso
significò per molti nostri nonni e padri, il cuore si stringe; la
mente si affolla di pensieri. Che fu, infatti, questo palazzo? Che
fu l´intero isolotto? A mano a mano che sbarcavano dalle navi (che
talora dovevano aspettare per giorni il loro turno), gli immigrati
ricevevano un cartoncino con su scritto un numero, da far pendere
sempre, come una medaglia, sul petto. Ognuno doveva mostrare quanti
soldi portasse con sé. Poi uomini, donne, bambini erano visitati da
medici. I sani "passavano"; chi risultava colpito da malattie
curabili, veniva ricoverato in un piccolo ospedale, sempre
sull´isola, in attesa della guarigione; chi invece era affetto da
malattie che lo rendevano inabile al lavoro (come, così si riteneva,
l'epilessia), o infettive, era rispedito in Europa. Tra le malattie
contagiose, le autorità temevano soprattutto il tracoma, una
malattia agli occhi che facilmente, allora, portava alla cecità ed
alla morte. Quasi sconosciuto negli Usa, un secolo fa il tracoma era
invece molto diffuso nell'Europa orientale e meridionale.
I "promossi" nel campo della salute dovevano poi superare un
test di intelligenza, ad esempio indicando, tra diversi
disegnini simili, i due uguali. Chi… "passava", entrava
finalmente nella "Registry room", la stanza di registrazione,
un'aula affollatissima chiamata, per la varietà di lingue che vi
si udivano, "il luogo di Babele". Fino a questo momento non vi
era stato bisogno di interpreti, perché gli immigranti - la
stragrande maggioranza dei quali, irlandesi e britannici a parte,
non sapeva una parola di inglese - erano guidati da segnali e da
gesti. Gli ispettori della "Registry room" erano invece
assistiti da interpreti delle principali lingue. A ciascuno si
chiedeva età, occupazione, stato civile, luogo ove intendeva
recarsi; e ci si assicurava (elemento decisivo) che qualcuno
garantisse comunque per lui, in America, vitto ed alloggio.
Se tutti gli "esami" erano superati, l'immigrante era ammesso. E
- si può immaginare con quanta gioia - nella sala attigua poteva
comperare, da apposite agenzie, il biglietto del treno che da
New York lo portava a destinazione. Da Ellis Island un battello
sbarcava il "promosso" nella metropoli, attraccando ad un molo
chiamato "kissing point", il luogo dei baci, perché qui parenti
ed amici, quando potevano, aspettavano con impazienza di
abbracciare la persona tanto attesa. I bocciati dovevano riprendere la nave e
tornare al paese d'origine. Una grande foto, nel museo di Ellis
Island, ritrae quattro donne italiane, sui trenta-quarant´anni,
vestite poveramente come le contadine di inizio Novecento, che
sono state "respinte". È difficile descrivere la disperazione
che traspare dai loro occhi, ed il pallore quasi mortale del
loro volto, icona di indicibile dolore. Le navi che avevano
portato in America immigranti ammalati (o considerati tali)
erano obbligate a riportarli in patria. Per scoraggiare il
trasporto di malati, a partire dal 1903 le autorità imposero
alle compagnie navali la multa di cento dollari per ogni
immigrato "respinto": una somma, allora, salata.
Nel contempo, le autorità
prescrissero che gli ispettori di Ellis Island controllassero gli
immigrati "con gentilezza e rispetto". Dal 1880 al 1930 entrarono
negli USA 27 milioni di immigrati - di cui circa 20 milioni
attraverso Ellis Island - provenienti da Italia (4,6 milioni),
Impero austro-ungarico (4), Russia (3,3), Germania (2,8), Gran
Bretagna (2,3), Canada (2,3), Irlanda (1,7), Svezia (1,1)… Ogni
giorno ad Ellis Island erano esaminate migliaia di persone. In
totale - ad esempio - nel 1901 vi passarono la "quarantena" 389mila
persone; un milione nel 1907. Il grande "esodo", e quindi il lavoro
di Ellis Island continuò, seppur contenuto, durante la prima Guerra
mondiale, e nei primi anni successivi; ma nel 1924 quasi cessò. Come
conseguenza dei sommovimenti provocati dal grande conflitto, ed
anche per ragioni interne (forti pressioni di movimenti xenofobi),
la Casa Bianca adottò misure assai restrittive contro l'immigrazione.
D'altronde - per limitarci al caso italiano - il Fascismo rese
difficile l'emigrazione negli USA. Durante la seconda guerra
mondiale ad Ellis Island furono internati prigionieri giapponesi,
tedeschi ed italiani; nel 1954 l'isola fu formalmente chiusa e in
pratica abbandonata. A partire dagli anni Settanta è iniziato il
restauro del complesso che stava andando in rovina; e nel 1990 è
stato aperto il museo dell'immigrazione negli edifici ripuliti e
riportati a come erano un secolo fa. Aiutati dal computer, cento
milioni di "americani" - il 40% della popolazione attuale degli USA
- ora possono, se lo vogliono, rintracciare ad Ellis Island le loro
"origine". Il lettore perdonerà se, a questo punto, da un discorso
generale passo ad uno privato. Con un tuennese che vive da
quarant´anni a New York, abbiamo "chiesto" al computer di Ellis
Island quando arrivarono là, agli inizi del Novecento, i nonni e
padri di gente del nostro paese.
Immediata la risposta. Per quanto mi riguarda, di mio nonno sapevo
l'anno dell'emigrazione, e poco più. Il computer è stato preciso: "Natale
S., proveniente da Chieti, Italia, partito il 26 ottobre 1912
con la nave La Provence da Le Havre [Francia del Nord; solo qualche
anno dopo, nel 1918, i nostri emigranti si
imbarcheranno a Genova]; arrivato il 2 novembre; celibe; anni venti;
destinazione Silverton (Colorado)".Ripassando, dopo il responso del
computer, nei saloni, per le scale, nei lunghi corridoi del
palazzone di Ellis Island, ti pare quasi di vederli i nostri nonni e
padri che là - in terra desiderata ma pur sempre straniera, e
diversissima da quella che, in cerca di fortuna, avevano lasciato -
attesero trepidanti il loro verdetto; e la commozione ti stringe il
cuore. Nelle minieredi Silverton.
Agli inizi del Novecento
durava vari giorni il viaggio in treno verso Silverton. Da New York
si doveva raggiungere Denver, capitale del Colorado, distante 2.500
km; e, poi, sempre in treno, 500 km. verso Sud, ai confini del New
Mexico, Durango, graziosa cittadina al centro di un vasto altipiano,
altitudine 1.996 metri. E da qui si andava a Silverton. Come? Dal
1882 era stata costruita la "Narrow Gauge Railroad", una ferrovia a
scartamento ridotto che, passando tra paurose gole e impressionanti
strapiombi portava il treno, mosso a carbone, fino ai 2.827 metri di altitudine
di Silverton. Questo treno speciale - quasi un monumento nazionale -
è stato conservato intatto ed ancor oggi, come un tempo, lavora,
portando però non minatori, ma turisti. Lento lento, con il suo "ciuff
ciuff" e spargendo nell´aria l'inconfondibile odore del carbone
bruciato, impiega tre ore e mezza per percorrere i 70 km. che lo
conducono a destinazione. Destinazione che, tra fine Ottocento ed i
primi due decenni del Novecento, presero centinaia di italiani, per
andare a lavorare nelle miniere d'oro che spuntavano, a decine,
nella remota zona di San Juan
County al cui centro si
trova appunto Silverton. Oggi questo è un villaggio di quattrocento
abitanti: molte casette (o baracche) sono ancora in legno, così come
erano una volta. La gente vive di turismo, perché il paesello è il
cuore di una vallata circondata dalle Montagne Rocciose, che qui
toccano i 4.300 metri, piene di neve per molti mesi l´anno, un
paradiso per gli sciatori. Le miniere, infatti, sono state tutte
chiuse (l´ultima nel 1991), perché, pur essendoci ancora vene
aurifere, il costo per estrarre il prezioso metallo sarebbe
superiore al guadagno. Dodici, dieci, otto decenni fa Silverton era
invece un villaggio di minatori. Gruppi di emigranti si passarono la voce per venire proprio qui a
lavorare: il posto, dicevano, assomiglia al nostro Abruzzo; e poi nel paesello, pur essendovi qualche distrazione
che certo mancava nei nostri villaggi montani, lontane erano le "tentazioni"
delle città. A cavallo tra Ottocento e Novecento, a Silverton
vivevano circa 1.200 abitanti, la maggior parte dei quali minatori
e, tra questi, moltissimi italiani. La gente "autoctona",
allora, campava affittando una stanza, e garantendo pranzo e cena,
ad un paio di minatori. Cento anni fa metà della paga di un minatore
(paga misera, ma sempre superiore a quella di un analogo lavoratore
in Europa) se ne andava per vitto e alloggio.
Visitiamo la "Old Hundred", la "miniera dei cento anni" situata su
un costone a tre-quattro km. da Silverton, quasi a strapiombo
sull´Animas, il torrente impetuoso che scorre in fondo alle stretta
valle che porta a Durango. Seduti su piccoli carrelli, e stando bene
attenti a non alzare la testa per non sbatterla contro la roccia,
attraverso una galleria buia si penetra per mille metri nelle
viscere della montagna. Qui una guida ti spiega come lavoravano i
minatori: mostra una vena aurifera che, illuminata dalle torce,
brilla sullo sfondo della parete; ed aziona delle macchine - quelle
di un tempo - con cui si scavava nella parete, una volta che le mine
avessero fatto crollare il grosso della roccia. Il pietrame,
caricato sui carrelli, veniva portato fuori, ove i macchinari lo
frantumavano, e l´oro era infine separato dai sassi. Il rumore delle
scavatrici all'interno della miniera oggi ci appare insopportabile;
la polvere è densa ed acre. Ma per noi turisti il fastidio dura una
mezz'ora. L´orario dei minatori - che si alternavano, giorno e notte,
in squadre di tre turni - otto ore. Gerald Dallavalle è lui la
memoria. Adesso, chi a
Silverton voglia trovare documenti su parenti che là, nei tempi
andati, hanno lavorato, deve semplicemente recarsi ai locali Archivi,
diretti da un personale gentilissimo. Ma la memoria vivente di
Silverton è Gerald. Con la moglie Nancy gestisce una casetta - parte
in cemento e parte in legno - con due stanze che vengono affittate
ai turisti: "Villa Dallavalle". Eh sì, perché Gerald - un omone
simpatico, sulla settantina - per parte di madre è di origini
italiane. Il padre era un Sawson, svedese; ma, ci spiega, "per amore
di mia mamma, che mi ha insegnato tutto, voglio conservare il suo
cognome, Dallavalle". Sindaco del paese
per vari anni, Gerald - in ricordo dei minatori (irlandesi, oltre
che italiani) del paese quasi tutti cattolici - si impegnò
perché nel 1959 fosse collocata su un dosso sopra il paesello una
statua, in marmo di Carrara, del "Cristo dei minatori". Ha poi
favorito la pubblicazione di un libro che raccogliesse i nomi (e una
piccola biografia) dei minatori sepolti a Silverton. Una tomba sotto
la neve. Gerald mi ha portato a visitare l'ampio cimitero, adagiato
sullo montagna. Nevicava forte. Malgrado il nevischio,
riesco a leggere qua e là sulle tombe altri cognomi: Martinelli, Dallavalle, Job… Sempre Gerald ha spinto
gli italiani del Colorado a realizzare a Silverton un
monumento, inaugurato nel
maggio 1999, davvero toccante. Dice l´iscrizione: "In grato ricordo
degli immigrati e dei loro discendenti,
Italia, che con forte volontà e con desiderio di riuscire, a costo
del sacrificio della vita, hanno aiutato a costruire e sviluppare
Silverton, le montagne di San Juan e il Colorado". E, sotto, la
firma: "italiani del Colorado". Mentre torniamo alla
"Villa", la neve continua a cadere; dalle Montagne Rocciose scende
un vento che gela. Gerald sospira: "Chissà come sarà l'inverno.
L'anno scorso è nevicato poco; solo due metri. Nel ´92 ne vennero
otto metri, la neve era più alta delle case". Il fischio lacerante
della locomotiva rimbomba nella valle: il macchinista avverte i
turisti, sparsi nelle viuzze del paesino a cercare souvenir, che il
trenino sta ripartendo per Durango. Gerald mi abbraccia. "Non dimenticatevi degli emigranti, della loro storia,
delle loro fatiche", è il suo saluto. Una breve corsa, ed eccomi nel
mio vagone, seduto sulle sue antiche panche di legno. "Ciuff, ciuff",
sbuffando il treno attraversa il ponte sull´Animas e si infila in
una gola. Il paese dei "nostri" minatori è ormai alle spalle. Addio
Silverton, piccola terra sacra!
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